Comunicare la crisi climatica: come aumentare l’efficacia?

Comunicare la crisi climatica

Comunicare la crisi climatica significa adoperarsi perché le evidenze scientifiche vengano realmente considerate e perché ognuno comprenda qual è il suo ruolo in questo fenomeno. Per gli addetti ai lavori è necessario operare su due piani distinti: innanzitutto quello dell’autorevolezza dei contenuti, da intendersi non solo come credibilità e documentazione, ma anche quale adeguata trasmissione della rilevanza di quanto sta avvenendo al mondo. In secondo luogo, il piano delle connessioni: tra essere umano e Natura, tra microazioni e macrocambiamenti.

Nodi da sciogliere nel comunicare la crisi climatica

Dal momento che sull’autorevolezza delle fonti abbiamo modo di parlarne (un’intervista sul tema è presente qui), ci soffermiamo ora su come comunicare la crisi climatica significhi far sentire le persone parte del problema e, quindi, ancora più rilevante, parte della soluzione. In termini di dinamiche, oggi, le persone cambiano i propri atteggiamenti quando si fa comprendere con più immediatezza l’analisi costi-benefici. Tale spiegazione richiede di essere non più solo razionale: è questo il nodo in cui si arena la comunicazione scientifica nei tanti tentativi di trasmissione della crisi climatica. Oggi l’efficacia si ottiene andando a definire anche quali valori intangibili un rischio climatico potrebbe intaccare. In un’epoca in cui la comunicazione punta a creare esperienza, storytelling, emozione, a fidelizzare sul lungo periodo, la comunicazione della scienza è rimasta ferma a dinamiche causa-conseguenza, legittime ma lente nel panorama percettivo e cognitivo dell’essere umano odierno. La scienza è forte di una indubbia autorevolezza che tuttavia, nella rigidità, la fa sembrare solo autoritaria. A far leva più rapidamente sulle coscienze e a permettere che questa leva converta in azione, oggi, è il rischio di venir privati di qualcosa di valore esclusivo, perché personale, tanto quanto intangibile: benessere, salute, esperienze personali e affettive, tempo di vita. Può suonare assurdo, per chi ha ben idea di quanto il Creato sia di inestimabile valore. Ma sono ancora troppe le persone che comunque pensano in ottica individualista, convinte di fare – magari – pure abbastanza.

Il senso di appartenenza e la partecipazione attiva

Il paradosso può sembrare dato dal fatto di far leva su elementi personali per evitare l’individualismo. Vediamone le dinamiche: comunicare la crisi climatica impone di creare un primo coinvolgimento su base profonda, su “credo” personali che vengono meno, su una forma di efficacia che ottimizzi le risorse alle singole persone. Al contempo è necessario che, dal mantenimento dell’interesse del singolo, si passi all’azione, con chiara dimostrazione di come da individuale ogni azione sia capace di conseguenze collettive. Se la base, quindi, deve rimanere scientifica, sfruttando dati, emittenti autorevoli, in un continuo processo di ricerca e sperimentazione documentabile e in un flusso sempre presente di informazione, per raggiungere il cuore e la mente delle persone è necessario anche avvalersi di una comunicazione di natura emotiva. Non si intende enfatica, non si parla di impatto sconvolgente, significa mettere le persone di fronte a cosa può avvenire in un prossimo futuro nella qualità della loro vita, in primis, e di come possono migliorare, a partire da quella, quella di chi li circonda. Una comunicazione che non punti sulla quantità di danni e di beni coinvolti, bensì sulla qualità, in ottica costruttiva. In parallelo è necessario che chi opera questa strategia proponga anche un percorso di soluzioni.

Rimane inteso che in questo processo le informazioni e indicazioni che si forniscono debbano essere accurate e che le realtà si assicurino di creare spazi di dialogo e interazione. Non basta comunicare, per quanto bene, bisogna anche essere realmente disponibili al confronto e monitorare la rete per coglierne umori, rispondere a dubbi, mostrarsi presenti e anche questa è una rigidità dell’attuale comunicazione scientifica.
Oggi, infatti, è atteso l’instaurarsi di una relazione con i contenuti e con chi li crea, quindi con chi quegli argomenti li ha presentati, fossero Centri di ricerca, Istituzioni o Brand. Quando questa aspettativa viene meno, si crea una chiusura che rende impermeabili gli utenti oppure li porta a cercare informazioni altrove, classificando l’esperienza comunicativa precedente come negativa. Un terreno fertile per chi, magari con meno competenze, cerca la viralità con finalità non sempre nobili.

Lo scopo ultimo, quindi, è creare un senso di appartenenza alla questione climatica, andando a rafforzare le possibilità di azione verso la propria comunità, ad esempio di quartiere in quartiere, tra chi – oltre ai professionisti che lo fanno per lavoro – segnala uno smottamento sull’argine di un fiume, chi supporta la raccolta dei rifiuti abbandonati lungo strada, chi fa economia domestica (un piccolo esempio è l’app Comuni-Chiamo dedicata a ottimizzare i flussi comunicativi e a creare partecipazione attiva tra i cittadini) . Significa far comprendere che il bene collettivo dipende dalla cura che ne ha l’individuo e che, viceversa, non curarsi del collettivo ha conseguenze irreversibili anche sui beni intangibili dell’individuo.

Comunicare la crisi climatica: il ruolo della lingua

A rimanere cruciale è l’uso delle parole: solo se appropriate denotano padronanza dell’argomento. Se c’è padronanza dell’argomento si risulta affidabili. Se c’è affidabilità si ha la chiave per farsi ascoltare. Se la terminologia dovesse essere troppo complessa ma necessita di mantenersi tale, è bene dare una definizione essenziale. Significa continuare a creare relazione e appartenenza, dare l’opportunità di usare un codice condiviso per comunicare la crisi climatica, perché il pubblico possa interrogarsi sui concetti e farli propri. E un codice condiviso è la chiave di ogni futuro sviluppo, lo hanno capito molte realtà che stanno operando una transizione del linguaggio burocratico al cosiddetto Plain Language (un paragrafo che lo spiega è presente in questo articolo). Questa è una strada per creare il know-how necessario a comunicare queste tematiche, unire cognizioni ed esperienze e comunicare con chiarezza per svolgere in modo ottimale un’attività, in questo caso per strutturare consapevolezza e responsabilità nel singolo, ricordando, ben oltre la retorica, che “La Terra su cui viviamo non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli” come citato nel discorso che nel 1852 Capo Seattle, della tribù dei nativi americani Duwamish, pronunciò in risposta alla richiesta del Governo degli Stati Uniti d’America relativamente alla volontà di comprare le terre del suo popolo.

La Terra su cui viviamo non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli.

Approfondimenti ulteriori:

Il Manifesto dei Diritti della Terra

Ten Key Principles: How to Communicate Climate Change for Effective Public Engagement

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