Nella concitazione di un’emergenza sembra acuirsi l’odio in rete, manifestato attraverso il cosiddetto hate speech. Si tratta di espressioni basate su parole d’odio, per l’appunto, generalmente rivolte a persone a indicare intolleranze di varie tipologie: culturali, sessuali, politiche, religiose. Un fenomeno che deve grande successo al moltiplicarsi delle piattaforme su cui oggi si comunica, ma non ha senso demonizzare queste. Dietro a una tastiera c’è sempre il fattore umano e due caratteristiche: l’urgenza con cui sembra necessario comunicare per primi e la disinibizione derivante dal filtro-schermo che porta a procedere senza particolare razionalità e previsione delle conseguenze, una riflessione che, invece, nella fisicità del reale avviene, proprio perché si avvertono più materici anche i rischi derivanti da una condotta arrogante. A seguire, il contraddittorio si evolve online, con altre persone che vivono la stessa condizione e che fanno sentire parte di una comunità, a cui ci si sente in dovere di ergersi a guida. Le conseguenze dell’hate speech, tuttavia, possono essere gravi. Questo è dovuto alla fusione sempre più indistinta tra virtuale e reale, al potere di amplificazione della rete, alla tracciabilità dei messaggi (una volta pubblicati, persistono e sono facilmente rintracciabili anche se modificati o eliminati), nonché a questioni psicologiche e sociologiche per cui il negativo viene avvertito come più rilevante del positivo, sicuramente più morboso e trova terreno fertile alla divulgazione.
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