Comunicare la crisi climatica significa adoperarsi perché le evidenze scientifiche vengano realmente considerate e perché ognuno comprenda qual è il suo ruolo in questo fenomeno. Per gli addetti ai lavori è necessario operare su due piani distinti: innanzitutto quello dell'autorevolezza dei contenuti, da intendersi non solo come credibilità e documentazione, ma anche quale adeguata trasmissione della rilevanza di quanto sta avvenendo al mondo. In secondo luogo, il piano delle connessioni: tra essere umano e Natura, tra microazioni e macrocambiamenti.
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"Emergenza" sembra essere una chiave passe-partout nella politica italiana.
Dal momento che indica una situazione di non adeguata corrispondenza delle risorse impiegate per un evento che può causare danni a persone, ambienti, oggetti, in politica ne viene sfruttata la parola (o il campo semantico, se pensiamo anche al concetto di sicurezza) per avanzare più o meno velate accuse relative all'amministrazione di suddette "risorse", solitamente la controparte, o per promesse che fanno leva sull'istinto all'autoprotezione e sul sentimento primordiale di paura, di perdere qualcosa di valore incommensurabile quale la vita per sé e i propri cari, a pieno sfruttamento di bias cognitivi faticosi da gestire. D'altra parte, "lo stile comunicativo è lo stile di leadership", si diceva in qualche articolo fa, e la scelta dei termini è il punto di partenza, di peso, nel definire l'identità politica. Per comprendere se, poi, comunicazione politica e strumentalizzazione dell'emergenza siano effettivamente legate, si offre qui solo un piccolo suggerimento, di natura linguistica, da allenare.
Nella concitazione di un’emergenza sembra acuirsi l’odio in rete, manifestato attraverso il cosiddetto hate speech. Si tratta di espressioni basate su parole d’odio, per l’appunto, generalmente rivolte a persone a indicare intolleranze di varie tipologie: culturali, sessuali, politiche, religiose. Un fenomeno che deve grande successo al moltiplicarsi delle piattaforme su cui oggi si comunica, ma non ha senso demonizzare queste. Dietro a una tastiera c’è sempre il fattore umano e due caratteristiche: l’urgenza con cui sembra necessario comunicare per primi e la disinibizione derivante dal filtro-schermo che porta a procedere senza particolare razionalità e previsione delle conseguenze, una riflessione che, invece, nella fisicità del reale avviene, proprio perché si avvertono più materici anche i rischi derivanti da una condotta arrogante. A seguire, il contraddittorio si evolve online, con altre persone che vivono la stessa condizione e che fanno sentire parte di una comunità, a cui ci si sente in dovere di ergersi a guida. Le conseguenze dell’hate speech, tuttavia, possono essere gravi. Questo è dovuto alla fusione sempre più indistinta tra virtuale e reale, al potere di amplificazione della rete, alla tracciabilità dei messaggi (una volta pubblicati, persistono e sono facilmente rintracciabili anche se modificati o eliminati), nonché a questioni psicologiche e sociologiche per cui il negativo viene avvertito come più rilevante del positivo, sicuramente più morboso e trova terreno fertile alla divulgazione.
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