Durante un’emergenza spesso si assiste a un proliferare di informazioni che facilmente generano il caos, tra verità, falsità, fraintendimenti, incompletezze. Di sicuro, tuttavia, l’alternativa più efficace non è il silenzio. Il silenzio espone comunque, il silenzio non è “non comunicare” e quindi evitare le conseguenze della comunicazione stessa. Il silenzio è foriero di non-conoscenza, segue che venga percepita – anche erroneamente – una non-competenza e può arrivare fino a essere considerato una omissione cercata per motivi di strumentalizzazione.
Perché il silenzio non è una buona opzione in emergenza
Il silenzio è terreno privilegiato per la strumentalizzazione della comunicazione, esso stesso rappresenta una forma di comunicazione, spoglia tuttavia della percezione di onestà del soggetto emittente e di quella di rispetto per l’intelletto dell’interlocutore. Comunicare ‘Whatever it takes‘: questa citazione di Mario Draghi, divenuta famosa in ben altro contesto, ma agevolmente applicabile alla sua metodologia di lavoro, è infatti una forma di concretezza necessaria quando si vivono i tempi responsabili, rapidi e delicati di un’emergenza.
A dimostrazione di quanto questo articolo intende affermare, vi sono due Paesi che, al netto delle dinamiche geopolitiche, trattiamo qui per avere in comune il silenzio comunicativo in merito alla pandemia da Covid-19, con due risultati diametralmente opposti ed entrambi non auspicabili: parliamo della Russia e della Corea del Nord.
Case history Russia – Covid-19: silenzio che porta al caos
In Russia sono due le fonti ufficiali che diramano i dati dei contagi: da un lato il Rosstat, ovvero il Servizio Statistico Federale, che parla di 462 mila persone decedute per malattie respiratorie a fine settembre 2021 (fonte: Open) e per contro offre pochi e lacunosi aggiornamenti sul sito ufficiale e ottiene dati mensili che tengono conto anche dei follow-up, dall’altro lato c’è la task force russa sul Covid, organismo di coordinamento della pandemia, che parla di 203 mila decessi entro lo stesso periodo, stando ad aggiornamenti quotidiani dagli ospedali. Secondo un’indagine del Financial Times, la Russia ha registrato 753mila vittime Covid da inizio pandemia, una delle cifre più alte del mondo stando ad analisi dei dati governativi. Sempre rimanendo ai dati “ufficiali” della task force, al 22 dicembre sono stati superati i 300 mila casi (fonte AdnKronos).
Atteniamoci alla comunicazione: la difformità dei dati forniti è causa di caos. Manca una regia unica, manca la volontà di chiarezza, con il risultato di avere un numero che supera il migliaio di morti al giorno per Covid-19 a fine 2021, una popolazione che risulta sfiduciata nei confronti di un vaccino usato quale strumento politico, poi non approvato su scala globale, e assuefatta a numeri non comprensibili e che è stata convinta a vaccinarsi a suon di ferie retribuite.
Case history Corea del Nord – Covid-19: silenzio che porta al sospetto
La Repubblica Popolare Democratica di Corea dichiara di non registrare casi di positività al Covid-19 entro i suoi confini, tanto da aver rifiutato a fine estate 2021 circa 3 milioni di dosi del vaccino Sinovac da parte del programma Covax dell’Oms. A dicembre dello stesso anno è proprio l’Organizzazione mondiale della Sanità a introdurla tra i 10 Paesi Covid-free, gli organi di stampa hanno tuttavia avanzato dei dubbi sui numeri comunicati: la vicina Corea del Sud ha avuto oltre mezzo milione di casi e oltre 5.000 morti da inizio pandemia (per quanto si sia consapevoli della poco agevole, per usare un eufemismo, comunicazione tra i due Paesi).
Data l’enfatica comunicazione che il leader del Paese ha sempre utilizzato nel raccontare mirabili gesta, a fronte di un’aura di omertà che caratterizza invece le criticità del Paese, alla luce, anche, del fatto che nel suo ultimo discorso pubblico, in occasione del 76mo anniversario della fondazione del Partito dei lavoratori della Corea del Nord, l’agenzia ufficiale Kcna ha citato la dichiarazione del leader che ha ammesso come il Paese stia vivendo una “situazione cupa”, soprattutto dal punto di vista economico, è facile pensare che le condizioni di vita, salute compresa, non siano rosee. Ma dal momento che è erroneo lasciarsi andare a supposizioni, rimanga indicativo sapere che, come cita il sito della Farnesina: “Dal 1 febbraio 2020 sono stati sospesi tutti i collegamenti aerei tra la Corea del Nord e il resto del mondo e chiusi i confini del Paese…in ragione delle rigide misure introdotte dalle Autorità nordcoreane per far fronte alla pandemia da COVID-19, sebbene il Paese non abbia dichiarato casi di positività“. In sostanza, se la verità sta in quanto dichiarato da Kim Jong Un, il leader del Paese già duramente sanzionato per il suo programma nucleare, questi sta favorendo un drastico peggioramento delle condizioni economiche e alimentari pur di non sottostare alle misure globalmente condivise di contrasto alla pandemia. Un silenzio che, comunque sia, inasprisce i sospetti e causa, per interessi di natura geopolitica, non solo fenomeni di complottismo, ma anche la proliferazione di fake news.
Quale alternativa al silenzio in presenza di criticità?
I due casi citati dimostrano che da un’emergenza se ne esce meglio se la si vive in modo condiviso. La condivisione è nella radice stessa di “comunicazione”, quel “mettere in comune” che insegna come il silenzio non sia un’opzione contemplabile, tantomeno in situazione di crisi. L’alternativa più valida al silenzio, anzi, è la verità. Si sa che può essere scomoda, non di certo accattivante dal punto di vista del fascino, specie politico, ma di fatto è un buon biglietto da visita per qualunque professionista saper riconoscere le criticità e dimostrare di avere la volontà di gestirle. Può non significare, ancora, averne gli strumenti, ma rappresenta una forma di umanità.
Nell’animo umano la tendenza è quella di rivolgersi a un leader di Paese (come a uno scienziato, a chiunque ci possa far uscire da una situazione critica e da cui ci si aspetti – anche legittimamente, eh – questo) immaginandolo onniscente e onnipotente, ma è utopico e in emergenza ci si scontra con la consapevolezza che si tratta di persone, affiancate da gruppi di persone dalle diverse competenze. A vincere nella verità è la consolante (dato il supereroismo e la glorificazione che caratterizza alcune figure in emergenza) sicurezza di avere dei limiti, dimostrare la grandezza nel riconoscerli e la fermezza del volerli superare, senza banalizzare o ridicolizzare né le persone né le competenze pur di raggiungere lo scopo.
Di sicuro non risolutorio, sicuramente realistico e umano.